Voglio raccontare la vita del Laboratorio di ricerca Spinal perché “non è più una questione SE sia possibile guarire il midollo spinale danneggiato ma QUANDO”.
Mi chiamo Rita e all’età di 21 anni, nel 1972, a seguito di un incidente d’auto, ho subito una lesione al midollo spinale con conseguente paralisi dalla 6 vertebra dorsale. Dopo alcuni anni, il tempo di riprendermi, ho incominciato ad occuparmi di associazionismo a livello locale e nazionale.
Quello che segue è il testo che ho letto alla giornata nazionale delle persone con lesione al midollo spinale promossa dalla FAIP, Federazione delle Associazioni Italiane delle persone con Para-Tetraplegia, il 4 aprile 2008 a Roma nella sede dell’INAIL e che racconta bene come mi sono avvicinata alla ricerca.
“La Federazione era nata con l’obiettivo di diffondere sul territorio nazionale la cultura della cura multidisciplinare della persona con lesione spinale, attraverso la creazione di presidi denominati Unità Spinali che avevamo quasi tutti conosciuto personalmente all’estero dove eravamo andati a farci curare: in Inghilterra, presso il famosissimo centro di Stoke Mandeville, in Germania ad Heidelberg , in Svizzera a Nottwill, in Svezia… Noi che eravamo stati curati e riabilitati non abbiamo potuto tacere e tenere per noi la soluzione che avevamo sperimentato.
Erano tempi di assunzione di responsabilità, di nascita delle associazioni, di formazioni di cittadini che si ponevano come interlocutori verso le istituzioni.
La lesione spinale, una volta, era una condizione che ti spingeva a cercare gli altri come te, ti spingeva ad aiutare quelli che incominciavano la straziante avventura. Se ne è persa la memoria. Nessuno sa più, e dico per fortuna, come non si veniva curati e non si veniva riabilitati. La federazione era nata per l’urgenza di dotare questo nostro paese di sistemi di cura validi, per non aumentare le già enormi sofferenze di chi diventava para o tetraplegico.
La nostra formazione è stata questa e la nostra attenzione, ancora oggi, si volge alle molte regioni italiane dove è ancora impossibile trovare risposte sanitarie alla lesione spinale.
La ricerca non era entrata nel nostro orizzonte di interesse primario se non per denunciare la falsa ricerca. Avevamo già visto i miracolati di Dikul e prima ancora di Carl Kao, persone per lo più povere e sprovvedute che avevano “versato” milioni di lire ai due professionisti credendo che avrebbero trovato la cura risolutiva, l’intervento che avrebbe sconfitto la paralisi. Sono di oggi gli interventi eseguiti a caro prezzo in Cina…il miraggio delle staminali.
La ricerca non poteva attirare la nostra attenzione: lo sapevamo che dalla lesione al midollo non si guarisce e di questo eravamo rimasti convinti e, sgombrato il campo da inutili perdite di tempo ed energia, ci eravamo dedicati per offrire ai nuovi mielolesi il meglio della riabilitazione, per permettere loro di uscire dall’ospedale “chiavi in mano”.
Verso gli anni ’90 abbiamo cominciato a veder comparire sul mercato ausili per stare in piedi e camminare, i parawalker. Ci avevano fatto credere che avrebbero dovuto servire ad un cammino utile. Mi ricordo un dimostratore che era venuto al centro Progetto Spilimbergo (centro di riabilitazione e mantenimento per persone con lesione al midollo spinale, creato dall’associazione regionale fvg para-tetraplegici). Il poveretto si era trovato circondato da motteggi e derisione, i “vecchi paraplegici” che erano riusciti a conquistare un cammino utile con i classici tutori, si erano presi gioco di quello che sembrava un gabbione. Avevano detto: Certo che se mi imbrachi fino alle orecchie potrò anche io stare in piedi, ma con quale utilità? Con quale acquisizione di abilità e riabilitazione? Che business è mai questo? Il cammino e l’equilibrio si imparano con tanta fatica, tanta fisioterapia e sacrificio.
Gli altri, la maggioranza, quelli che non ci pensavano neppure ad affrontare appunto tanto sacrificio per niente, avevano continuato a mettere in campo le solite argomentazioni: “A che cosa serve stare in piedi se poi non posso utilmente liberare almeno una mano per fare qualcosa in posizione eretta? E poi perché mi si viene a parlare di cammino quando non abbiamo a disposizione neppure le più elementari cure per la quotidianità?”.
Nessun fisioterapista, nessun medico aveva usato l’argomentazione che ho sentito sostenere di recente da Giuliano Taccola per farmi prendere in considerazione la pratica della stazione eretta come inutile e gratificante allenamento e attività fisica: “Quando ti alleni per vincere una gara non ti chiedi a che cosa serve, serve alla gara stessa, ti alleni perché vuoi diventare bravo, perché vuoi vincere”. Ecco, se ci avessero presentato la faccenda in questi termini forse il nostro atteggiamento sarebbe stato diverso. Ma la medicina tutta ha un’impostazione di carattere moralistico/utilitaristico. E noi quindi, che la lezione l’avevamo imparata, avevamo continuato a sostenere che una buona riabilitazione serve a farti conoscere come stare sulla sedia a ruote, come sfruttare ogni opportunità di vita, come diventare il più possibile indipendente. Risolti i gravi problemi di controllo del nostro nuovo corpo, non c’è altro tempo da perdere, bisogna ricominciare a vivere.
Siamo diventati convinti avversari del sogno e della speranza, contro tutto ciò che distraeva dal mirare diritti allo scopo della indipendenza e della capacità, per quanto possibile, di farcela da soli.
Alcuni anni dopo ho cominciato a sentir parlare del recupero del cammino come conseguenza di una neuro riabilitazione che stimola il midollo a riprodurne lo schema (del cammino), non di un miracolo che mi toglie dalla situazione di paralisi, no.
Ci chiedevamo: che cosa sono queste stranezze del cammino in sospensione di carico? I giudizi andavano alla grande o forse, a questo punto, dovrei dire i pregiudizi che mi stavano impedendo di guardare con serenità, di apprendere quanto di nuovo era successo, di capire le nuove condizioni in cui oggi una persona con lesione spinale viene dimessa dall’ospedale.
Quando sono andata alla SISSA (Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati di Trieste) con macchina fotografica e registratore, il mio sarcasmo nei loro confronti forse non era visibile ma io me lo sentivo addosso. Andavo alla SISSA a seguito del presidente dell’associazione per scrivere un articolo su un’attività di ricerca, SPINAL, che vedeva collaborare i medici del Gervasutta, l’istituto di riabilitazione di Udine, e i ricercatori di base della SISSA di Trieste.
Non sapevo, anche perché strumenti di comunicazione come internet non c’erano e non avevamo efficaci contatti con le realtà estere e oltre oceano . Non sapevo che, per esempio, il Miami Project to cure paralysis era nato nel 1985, anno di fondazione della Faip. Non sapevo che nel 1990 il gruppo di cui fa parte anche Wise Young aveva scoperto il methylprednisolone, la prima effettiva terapia del danno al midollo spinale che aveva messo fine alla convinzione che la lesione spinale fosse permanente, irreversibile. Una terapia poi rivelatasi addirittura dannosa ma che aveva aperto la strada della ricerca.
Noi nel 1990 eravamo ben lontani dall’immaginare una realtà che non fosse quella della creazione di servizi sanitari e sociali adeguati.
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Nel 1998 viene fondata la ICCP, International Campaign for Cures of spinal cord injury Paralysis, ma io scopro solo da poco la famosa frase che ne è la bandiera: non è più una questione SE sia possibile guarire il midollo spinale danneggiato ma QUANDO.
E poi la frase di Wise Young “Abbiamo intrapreso il più ambizioso viaggio della storia dell’uomo: raggiungere qualcosa che era ritenuto impossibile da molte generazioni di scienziati e clinici”
Sono stata privilegiata: ho avuto un interlocutore molto speciale, ricercatore presso la SISSA e anche paraplegico. All’inizio mi sono limitata a dar credito alla mia capacità di distinguere, capire la verità delle persone e Giuliano Taccola lo sentivo autentico. Ma non mi sentivo pronta ad ascoltare un discorso sulla ricerca che avrei dovuto traghettare in associazione perché in associazione non c’era chi fosse attento a questo nuovo aspetto. Ma ho ascoltato, facendo la maggior resistenza possibile, ostacolando con mille domande ogni conversazione. E’ stato così che lentamente ma sicuramente si sono andati delineando i contorni di una novità reale, seria, una rivoluzione nel modo di pensare della scienza nei confronti del midollo spinale. Si è aperto anche alla mia mente lo scenario completamente nuovo, emozionante, già evidente dal 1990 e che cioè è possibile curare il danno al midollo spinale.
Questa frase contiene almeno due parole per me prima inammissibili: possibile e curare. L’aggettivo Possibile sposta la questione dalla drammaticità in cui sono cresciuta “Ti sei fatta male e non è possibile fare alcunché” Stop, finito, vietato sperare. Anni di angoscia e buio, poi…A quel punto non ti interessa più neppure capire come funziona o meglio non funziona il meccanismo. Possibile è il capovolgimento dell’impostazione stessa nel considerare la lesione spinale.
Il verbo Curare è poi il cuneo che ha fatto saltare ogni pregiudizio: non più il miracolo, tutto come prima, la bacchetta magica ma altro, un altro approccio mentale e culturale al fatto che si può limitare e parzialmente recuperare. Ricerca è questo: studiare come ridurre il danno subito e intervenire limitandone l’estensione, limitare la spasticità e il dolore, cercare di capire come una nuova neuro riabilitazione possa sollecitare le risposte del midollo integro.
Il verbo Curare ha rimesso nella giusta prospettiva i sensazionalismi. Voglio dire che ad un certo punto è sembrato che la ricerca si riassumesse tout court nelle cellule staminali: il trapianto di “pappetta” sulla lesione forse ha fatto sognare alcuni, noi no, ci siamo radicalizzati in un atteggiamento di grave prudenza. La bagarre che si è scatenata ha consentito ogni deriva ma la reale possibilità di successo nella ricerca si è maturata al di fuori dei miracoli. Ho scoperto, per esempio, che il prof. Nistri, della SISSA, sta studiando il midollo spinale da 30 anni; che, come dicevo prima, altre linee di ricerca stavano attraendo gli scienziati, che probabilmente solo la comprensione del comportamento del midollo aprirà nuove strade per l’oggi. Sapere che si sta facendo ricerca mette le persone in una situazione diversa: non più oggetti di una cura senza speranza ma soggetti/oggetti di ricerca.
Il medico che non aveva interesse ad occuparsi del paraplegico “perché tanto non guarisce” ha davanti a sé nuove ambiziose sfide. Si aprono nuovi scenari per la lesione al midollo spinale, da qualunque parte la rivolti.
Dopo il 2000 si è scatenata la voglia di sapere, la brama di conoscere da parte dei “nuovi” para-tetraplegici. Hanno dato vita ad un movimento, tra le persone con lesione spinale, di consapevolezza e promozione della ricerca: sto parlando dell’entusiasmante gruppo che si è chiamato significativamente Tuttinpiedi da cui poi si è staccata la fondazione Vertical.
La Faip ha avviato un’azione di avvicinamento, guidata dalla necessità di promuovere comportamenti corretti da parte delle persone con lesione spinale. Nel maggio del 2005 ha creato un Comitato Tecnico Scientifico per essere in grado di sostenere studi clinici validi e per segnalare il pericolo di una ricerca fine a se stessa che non tenga in debita considerazione il miglioramento sostanziale della qualità della vita della persona con lesione al midollo spinale e della condizione delle loro famiglie.
E la conclusione, neanche tanto scontata, è che adesso possiamo darci da fare perché chi sta cercando cerchi più in fretta e meglio, cerchi anche per me, per il mio presente.