Spinal lab spinge anche i più giovani che si avvicinano alla ricerca a misurarsi con situazioni nuove e a sperimentare la propria vocazione e le proprie capacità.
Nejada Dingu, che ha conseguito la laurea magistrale in Biotecnologie Sanitarie presso la Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Udine lo scorso 18 aprile 2013 con una tesi sperimentale interamente svolta nel Laboratorio Spinal dal titolo “L’attivazione dei circuiti locomotori spinali modula l’eccitabilità del midollo dorsale”, dalla fine di maggio all’inizio di luglio, grazie alle collaborazioni scientifiche che il dott. Taccola ha creato con diversi laboratori in varie parti del mondo, è andata a fare esperienza di ricerca “all’estero” presso il laboratorio del dott. Deumens, all’Università Cattolica di Louvain, l’UCL, in Belgio. Presso quel laboratorio ha lavorato con modelli preclinici al fine di valutare in che modo l’attività del midollo dorsale possa essere regolata in un’ottica di possibili strategie terapeutiche per alleviare il dolore neuropatico. Il soggiorno di studio e ricerca di Nejada è stato interamente sostenuto dalla FAIP (vedi la relazione in fondo all’articolo).
Nejada al suo ritorno da Lovanio, racconta:
E’ stata un’esperienza molto interessante, mi sono avvicinata per la prima volta alle tecniche sperimentali per lo studio del dolore neuropatico su modelli preclinici.
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R. Cosa è un modello preclinico?
Si tratta di un modello sperimentale animale nel quale viene indotta una specifica lesione al fine di mimare il più fedelmente possibile un determinato quadro clinico. Per studiare alcuni passaggi delle lesioni spinali è necessario disporre di un ‘prototipo’ di lesione spinale su cui valutare l’efficacia e la sicurezza di eventuali trattamenti terapeutici prima di considerarli in clinica.
R. Come è proseguito il tuo lavoro di ricerca?
Presso il laboratorio di neurofarmacologia dell’UCL ho avuto modo di osservare ed eseguire alcuni dei test comportamentali tra i più utilizzati nell’ambito della sperimentazione preclinica.
Infatti, ho eseguito una serie di test per la valutazione dell’ipersensibilità meccanica in risposta a stimoli di crescente intensità, ma non dolorosi, in condizioni di controllo. E’ stato utilizzato il test di von Frey, dal nome del fisiologo che a fine Ottocento lo introdusse allo scopo di quantificare il livello di sensibilità ad uno stimolo di natura meccanica. Più in dettaglio, il test consiste nella pressione con filamenti metallici di calibro crescente della pianta dell’arto inferiore dell’animale. Ciò che viene valutata è una risposta di ritrazione dell’arto in seguito alla stimolazione, normalmente innocua, qualora l’animale abbia sviluppato una reazione di ipersensibilità.
Altri test comportamentali, questa volta atti a prendere in esame il recupero motorio in seguito all’induzione di una lesione centrale o periferica del sistema nervoso, sono stati lo Static Sciatic Index (SSI) e il CatWalk. Il SSI è un indice atto a stimare il grado di rigenerazione in seguito all’induzione di una lesione periferica, tipicamente del nervo sciatico, e valuta il grado di retrazione delle dita della zampa. Il CatWalk consiste, come dice la parola stessa, in una “passerella”.
Una passerella particolare, formata da due lastre di vetro sovrapposte con una leggera intercapedine dove viene fatto riflettere un fascio di luce monocromatica sopra cui l’animale camminando oscura con la zampa una superficie corrispondente all’impronta di ogni passo. Il tutto viene registrato da una videocamera e l’analisi del filmato eseguita da PC restituisce tutta una serie di parametri, quali area e tempo di contatto della zampa con la superficie in vetro, capacità di supporto del peso corporeo, coordinazione, regolarità del passo, ecc., che nel loro complesso permettono di effettuare un’accurata valutazione del recupero della locomozione in seguito a lesione.
R. Che cosa stanno studiando nel laboratorio belga?
Uno dei principali progetti di ricerca del gruppo di neurofarmacologia consiste nel valutare in quale maniera stati pro-infiammatori che interessano il tessuto nervoso siano correlabili e possano influenzare lo sviluppo di dolore cronico. A questo scopo viene utilizzato un modello preclinico di neuroinfiammazione.
Un secondo filone di ricerca nel campo del dolore riguarda l’individuazione di strategie pro-rigenerative che siano in grado di risolvere condizioni di neuropatia instauratesi principalmente in seguito a lesione di nervo periferico. In questo ambito, numerosi sforzi sono stati compiuti per individuare target umorali e/o cellulari (fibroblasti epineurali) in grado di promuovere il reclutamento di cellule di Schwann, fondamentali nel processo rigenerativo del nervo periferico. Al momento, in particolare, si vuole verificare l’effettiva importanza della guaina mielinica nel processo rigenerativo tramite la messa a punto di un nuovo modello preclinico che prevede la legatura del nervo infraorbitale.
R. E quali le loro ultime scoperte?
Recentemente nel laboratorio dell’UCL è stato dimostrato come l’infiammazione instauratasi a livello del midollo spinale si prolunghi anche oltre la fase di ipersensibilizzazione evocata da una lesione periferica. Questo è di notevole importanza in quanto indica che l’infiammazione persiste anche in seguito alla risoluzione del dolore di fase acuta, determinando l’istaurarsi del dolore cronico.
A conferma di ciò, è stato recentemente pubblicato dal gruppo belga come in presenza di stati infiammatori una stessa lesione periferica determini dolore neuropatico più intenso rispetto a quello evocato dalla stessa lesione ma in condizioni di controllo. Queste osservazioni evidenziano un ruolo cruciale dell’infiammazione nella genesi del dolore cronico.
R. Che cosa ne hai tratto, che indicazioni hai avuto dai tuoi esperimenti all’UCL?
Si è trattato di un preliminare contatto per verificare la possibilità di integrare le tecniche sperimentali utilizzate dai colleghi del laboratorio belga con quelle del laboratorio Spinal di Udine. Allo Spinal lab utilizziamo un modello in vitro che ci ha consentito di fare delle osservazioni molto interessanti e all’UCL abbiamo voluto vedere che cosa succedeva riproducendo alcuni dei nostri esperimenti in modelli preclinici.
R. Come si fa perché le due modalità di studio siano integrate una all’altra?
Innanzitutto va detto che l’approccio in vitro e quello preclinico danno diverse indicazioni ed opportunità. Gli esperimenti in vitro consentono di semplificare un problema biologico, per sua natura estremamente complesso, e di suddividerlo in un’insieme di quesiti minori più facilmente approcciabili e risolvibili con l’utilizzo di metodi statisticamente rigorosi che permettano di tenere sotto controllo un elevato numero di variabili. Tuttavia, per le sue caratteristiche intrinseche, questo approccio sistematico che contraddistingue gli studi in vitro si allontana notevolmente da quello che è il complesso scenario clinico, pur risultando in grado di proporre idee nuove ed originali.
D’altro canto, i modelli preclinici di lesione del midollo spinale e del nervo periferico che ho avuto modo di studiare durante il mio soggiorno all’UCL, permettono di avvicinarsi alla complessità del quesito clinico. Ciò nonostante, nella riproposizione di una situazione clinica risulta ardua la possibilità di controllare in maniera accurata alcuni aspetti cruciali dell’esperimento, quali ad esempio il sito di somministrazione di un dato trattamento oppure il mantenimento a concentrazioni costanti di un determinato farmaco per tutta la durata dell’applicazione. Inoltre, le tecniche in vivo, soprattutto nell’ambito dei test comportamentali, presentano minore riproducibilità, quando confrontate con quelle in vitro per il fatto che l’esito del test comportamentale presenta una notevole componente interpretativa operatore-dipendente.
Risulta, perciò, importante conoscere in partenza vantaggi e svantaggi di entrambi gli approcci ed è bene capire che la qualità dei dati raccolti dipende in larga parte dalla formulazione del quesito di partenza e dalla modalità di studio scelta per trovare le risposte.
R. Quale è il percorso di una scoperta scientifica?
Le idee della ricerca di base sulle lesioni spinali devono essere trasferite e applicate a livelli di complessità superiore fino ad avere nei casi migliori una qualche applicabilità clinica: bisogna essere consapevoli che questo percorso presenta discontinuità, punti in cui cioè dobbiamo saltare da una tecnica ad un’altra, da un modello all’altro, passaggi che spesso richiedono delle riflessioni importanti per poter giungere ad osservazioni affidabili, riproducibili, efficaci e sicure.
Ciò non toglie che a volte la sola casualità, quella che gli inglesi chiamano Serendipity, possa portare a conclusioni fortunose, la ricerca medica è ricca di scoperte avvenute un po’ per caso grazie all’attenta osservazione da parte dei ricercatori di eventi casuali ed inaspettati. Ma a parte queste fortunate circostanze, la ricerca segue un percorso che parte dalle prime intuizioni ottenute con i metodi propri della ricerca di base, via via convalidate e arricchite da approcci sperimentali di crescente complessità.
R. Che differenze hai notato nell’organizzazione del lavoro di laboratorio tra Spinal e UCL?
Come lavorano i giovani ricercatori rispetto ai tuoi colleghi del laboratorio Spinal?
Qui, nel laboratorio Spinal, c’è una maggior condivisione della linea di ricerca in quanto tutto è focalizzato attorno ad un argomento principale: l’organizzazione funzionale e la farmacologia dei circuiti interneuronali spinali. La discussione sui risultati degli esperimenti è favorita anche da un ambiente scientifico sicuramente più raccolto rispetto al grande centro di ricerca, pur tuttavia estremamente dinamico e vivace.
L’UCL presenta, d’altro canto, tutta una serie di vantaggi tipici del grande polo di ricerca, primo tra tutti il contatto con gruppi che lavorano in ambiti differenti e, quindi, lo scambio di idee e di conoscenze in una realtà multidisciplinare. Un frequente rischio in realtà estremamente ampie, tuttavia, è la mancanza di comunicazione tra i singoli, l’avvicendamento di ricercatori diversi in un dato progetto e, quindi, la perdita di continuità del lavoro di ricerca. Ciò nonostante, nel laboratorio di neurofarmacologia che ho avuto modo di frequentare per due mesi, a tutto questo si sopperiva tramite riunioni settimanali durante le quali veniva ridefinita la linea di ricerca alla luce dei più recenti risultati raccolti.
Per quanto riguarda aspetti più pratici come la modalità di lavoro, c’è sicuramente da dire che lavorare con modelli preclinici ti obbliga ad organizzare la tua giornata in funzione di numerose variabili. La cura del modello preclinico assorbe giornalmente lo sperimentatore anche ben oltre il trattamento sperimentale con l’obiettivo principale di impedire complicanze che ne compromettano il benessere. In quest’ottica, quindi, portare a termine un esperimento risulta estremamente impegnativo da un punto di vista pratico in quanto alla fase sperimentale vera e propria va sommata una fase cosiddetta “peri-sperimentale” estremamente importante.
Mi ritengo molto fortunata di aver fatto la mia prima esperienza di ricerca al laboratorio Spinal e di aver incominciato a lavorare in un ambiente così aperto e ricco di confronti, anche per studenti come me all’inizio della loro formazione scientifica.
Dall’UCL torno sicuramente arricchita di nuove competenze e di nuove conoscenze, il confronto con realtà diverse è sempre positivo. Ho cercato di imparare quanto più possibile. Andare mi ha sicuramente aiutato a crescere e a conoscere una realtà differente da quella del laboratorio Spinal. Ed è stata un’esperienza molto bella anche dal punto di vista umano.